Cultura sportiva, questa sconosciuta

“In una recente rubrica lei ha difeso a spada tratta il calcio, ma resto convinto che l’overdose di questo sport sui media nuoccia alla cultura sportiva di questo Paese…” Si tratta della nota di un lettore a La Gazzetta dello Sport e questa la risposta di Franco Arturi: “D’accordo, riparliamone, tentando di portare un po’ di chiarezza in un tema molto dibattuto, ma scarsamente conosciuto. Comincerò con un episodio personale. Anni fa mi capitò di partire per gli Stati Uniti all’indomani di un’intensa serata di lavoro tutta riservata a un tempo da favola ottenuto dalla velocista americana Evelyn Ashford sui 100 metri. La Gazzetta le dedicò una pagina. Sbarcato non molte ore dopo nel suo Paese, ero curioso di constatarne l’impatto sulla stampa di casa. Rimasi di sasso: notiziole semi invisibili in un’orgia di baseball, di «amichevoli» di football e di novità di basket. Non fu né la prima né l’ultima volta. Hanno cultura sportiva laggiù negli Usa?
Gliene racconto un’altra: nella Germania Est, quella dei miracoli sportivi (fondati sul doping di Stato, come si sarebbe saputo anni dopo), il calcio era palesemente malvisto dal potere. Fino a contenerne al minimo le cronache sulla stampa. Nella prospettiva di un regime comunista affamato di riconoscimenti internazionali veicolati anche da successi sportivi, il calcio, che assegnava alle Olimpiadi un’unica medaglia, costituiva solo un disturbo al reclutamento verso sport ben più fruttiferi, come canottaggio, atletica, nuoto, eccetera. Per questo rimanevamo sbalorditi, una volta oltrepassato il Muro, nel constatare che i tedeschi Est, quasi clandestinamente, stravedevano in realtà per la loro Ddr-Oberliga, da noi sconosciuta. Che cultura sportiva avevano i tedeschi Est?
In realtà questa espressione si usa impropriamente: piuttosto nel nostro Paese difettiamo di valori sportivi, concetto differente. Ma non solo negli stadi di calcio, spesso intossicati da violenze e inciviltà e di malinteso senso tribale. Ma anche nei palazzetti del basket, sulle tribunette delle piscine, in tanti contesti giovanili dove genitori mentecatti danno misera prova di sé, ossessionando i figli propri e degli altri e trasformando lo sport in una discarica dei peggiori sentimenti. La monocultura sportiva dei media? Un falso problema, spesso velato di ipocrisia: al cultore del nuoto interesserebbero ben poco, ad esempio, paginate di rotelle o equitazione. La realtà è che molti appassionati di una discipl

ina sportiva vivono immersi nel loro spicchio di realtà e sono infastiditi da ogni «distrazione». Per loro la cultura sportiva si misura dallo spazio dedicato da giornali e tv allo sport preferito. E alzano un polverone per mascherare i loro ristretti orizzonti.
I giornalisti, già: i più ignoranti e «incolti». Sono loro che sacrificano al dio calcio, mantenendo le masse nell’ignoranza. Chiedo a queste persone che vivono di certezze: esiste o no un mercato libero nelle nostre società? E i media sportivi, per proporre anche notizie di «altri sport», non devono garantire all’opinione pubblica informazione secondo i suoi (legittimi) gusti prevalenti? Ci sono discipline, nel nostro Paese, che toccano i 400 mila tesserati, del tutto sprovvisti di una stampa specifica. Eppure se in questa folla solo uno su quattro (non parliamo delle famiglie e dell’«indotto») fosse disponibile, per esempio, ad acquistare un settimanale, ne uscirebbe una poderosa rivista da 100 mila copie con fior di redazione. Spiegateci, per favore: quale nuovo Minculpop deve dettare i palinsesti ai media sportivi? Se qualcuno ha la ricetta in tasca, la passi subito a noi e ai nostri direttori ed editori: in fondo, siamo tutti desiderosi di prosperare in modo onesto. Vendere giornali e alzare gli share è la nostra missione da decenni: dateci la dritta giusta. E fate girare la voce al resto del mondo”.
La Gazzetta dello Sport di mercoledì 4 aprile 2018

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