Nel centenario della fine del primo conflitto mondiale

  «Dalla trincea invio un caldo ringraziamento anche a nome dei miei colleghi per la vostra cortese premura nel procurarci la lettura tanto desiderata della rosea». Firmato Virgilio Fossati. Era il 17 aprile 1916 quando il sottotenente dell’Ottavo Reggimento di fanteria, brigata Cuneo, scriveva in redazione ai nostri predecessori di 102 anni fa. Lui li conosceva bene, dato che era il capitano dell’Inter, allora si diceva Internazionale, e della nostra nazionale, non ancora azzurra. E’ uno dei mille episodi che traggo da «La migliore gioventù», un libro prezioso e delicato, scritto dall’alpinista Daniele Nardi e dal giornalista Dario Ricci, eccellente raccontatore e divulgatore dello sport e delle sue favole. Parla di alcune storie individuali fra le tante degli sportivi italiani che combatterono e morirono nella Grande Guerra. Fossati non tornò: fu spazzato via dalle mitragliatrici nemiche, come altri 650 mila soldati italiani, uscendo dalla trincea sul Carso all’assalto delle postazioni austriache.
Nel centenario della conclusione di quel catastrofico conflitto, a questi combattenti-campioni,il Coni renderà un particolare omaggio lunedì prossimo con una delegazione guidata dal presidente Malagò nel sacrario di Redipuglia. Un’iniziativa importante che rimette in primo piano il sacrificio, non molto conosciuto, di tanti atleti italiani, anche di primissimo piano. Ne uscirono indenni Enzo Ferrari, Tazio Nuvolari, l’estroso calciatore del Novara Mario Meneghetti, l’allenatore-giornalista-alpino Vittorio Pozzo, padre putativo dei Bearzot e dei Lippi, il marciatore Ferdinando Altimani (che avrebbe lavorato per decenni come tipografo proprio della Gazzetta), il grande pugile Erminio Spalla, l’immenso schermitore Nedo Nadi. Non ce la fecero l’olimpionico della ginnastica a squadre di Stoccolma 1912 Guido Romano, il calciatore di Juve e Milan Enrico Canfari, i suoi compagni Benigno Dalmazzo e Luigi Forlano, il vincitore del Giro d’Italia 1913 Carlo Oriani, il campione del mondo di canottaggio Giuseppe Sinigaglia, cui è intitolato lo stadio di Como e l’urlo di battaglia dell’«otto» della canottieri Lario. E purtroppo innumerevoli altri già noti e meno noti, vittime di una carneficina che sembrava il vertice di brutalità della cultura umana, ma che fu superata appena vent’anni dopo dal secondo conflitto.
Come già sapete, questo giornale fu in prima linea in quel conflitto, anche in senso letterale. A quasi vent’anni dalla sua fondazione, la Gazzetta era già saldamente radicata nell’immaginario collettivo degli «sportsmen», mandava inviati all’estero, organizzava gare di ciclismo, lotta, auto, podismo, passava le centomila copie di tiratura. Ma allo scoppio del conflitto, si immerse nello sforzo bellico del Paese: cronache dal fronte di atleti-soldati, notizie su giornalisti che partivano per la guerra, purtroppo numerosi necrologi. Il giornale stesso dovette battersi per la propria sopravvivenza, fra riduzione del numero di pagine e della frequenza di uscita. La rosea promosse iniziative e gare «onde contribuire a quella preparazione ginnica premilitare la cui utilità è stata finalmente riconosciuta». Il suo settimanale cambiò testata e divenne «Lo Sport Illustrato e la Guerra». La rosea fu in campo, al punto che il soldato Renzo Genisio, nella notte del 27 maggio 1918, piantò proprio una copia della Gazzetta in una trincea austriaca conquistata nei pressi di Caposile, «così sapranno meglio che gli italiani non sono demoralizzati». Commovente, come il supplemento «La Gazzetta del mitragliere»: facile parlare di retorica bellicistica, un secolo dopo. Ma forse è un approccio sbagliato perché troppo fuori da tempi. Onore a quei poveri caduti.
Franco Arturi – La Gazzetta dello Sport (venerdì, 8 giugno 2018)

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