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STORIE DI JUDO A CURA DI ALESSANDRO GIORGI

Si sono da poco conclusi i Campionati del Mondo di judo al Budokan di Tokyo, prova generale delle prossime Olimpiadi tra dodici mesi in Giappone. Quest’anno più che mai ero interessato alla compagine nipponica, che in questi anni sta crescendo come nessun altra squadra, con judoisti di un livello stratosferico come, sopra tutti,  Ono, Maruyama e i fratelli Abe. Quello che stupisce è con quanta bellezza e facilità vincano e qualora perdano sono ricordati per la loro bravura, anche nella sconfitta. A questo proposito mi viene in mente il proemio dell’Orlando Furioso: “le dame, i cavalier, l’arme e gli amori” dove le cronache di guerra si intrecciano con quelle personali dei paladini, dei loro amori e delle loro passioni. Se da un punto di vista il Campionato è una classifica, non dobbiamo fermarci a quella solo, perché il judo trae spessore e cultura dalle storie personali. Chi ha curiosità per il pugilato avrà sicuramente letto Marco Nicolini, grande narratore delle storie private dei pugili, scritte con uno stile che ha una valenza letteraria, e le cui storie integrano le cronache sportive. E così penso a questo Giappone, fortissimo ma non inarrestabile, tanto che hanno perso sei finali (5 ori, 6 argenti e 5 bronzi davanti alla Francia, seconda classificata con 3 ori, 1 argento e 2 bronzi), altrimenti sarebbe stata un’ecatombe per tutti gli altri partecipanti, già così 10 medaglie dalla seconda sono un abisso.

Ora, non conosco storie personali di questa giovane nazionale, in sostituzione vorrei cogliere l’occasione per fare un paio di riflessioni sul mondo nipponico.

Sono stato sempre attratto dal Giappone e dalla sua cultura, di conseguenza anche dai judoisti nipponici, non tanto perché venivano qui in Europa ad insegnare sino dagli anni ‘50  sembrando di fatto i veri depositari del judo, ma piuttosto per la loro pervicacia nel cercare la tecnica sopra ogni cosa. La ripetizione di un esercizio come forma di realizzazione. Chiunque ha amato il judo è passato da quella strada, dagli uchi komi interminabili fatti a migliaia, magari con un compagno appassionato anche lui, coinvolto nelle giornate estive, quando c’è meno da fare, facendosi dare le chiavi dal maestro per inseguire qualcosa che assomigliava alla perfezione di un gesto, alla pulizia di un tai sabaki, alla compattezza dell’attacco. Alla fine di quegli allenamenti, più tardi, a cena, anche la forchetta sembrava pesante. Se non c’era nessuno con cui allenarsi, pazienza, rimaneva la camera d’aria legata ad una spalliera e il tandoku renshu, l’allenamento con l’ombra.

Questo è stato il primo insegnamento che ho ricevuto dal Giappone, se ripetevo bene migliaia di volte la tecnica era più facile da fare in randori. Sembra che per padroneggiare bene una tecnica ci vogliano circa 10.000 entrate corrette. E’ estremamente tranquillizzante come principio, non entra in campo la valutazione di sé (il più delle volte è una terribile nemica) “ sono bravo….non sono bravo….ma cosa mi alleno a fare se quello è più bravo di me…” ma agisce solo la motivazione…” se mi alleno di più, ho più possibilità di farcela” Entrati in questa dimensione, in questa forsennata ricerca della perfezione tecnica spesso si trova qualcos’altro, un’attività fisica senza il pensiero, un lavoro che fa superare il concetto di sforzo stesso, ridando al corpo la possibilità di essere meccanismo che produce movimento senza  l’interferenza del pensiero. La fatica diventa così una dimensione mentale e non fisica e in tutto ciò l’uomo si astrae riconquistando un dimensione profonda e antica, non ragionata.

La seconda osservazione che vorrei proporre è la seguente, forse è solo una mia lettura, ma mi sembra che i giapponesi lascino sempre all’altro una possibilità, se pur in minima parte, di vincere. Forse esagero ma questa osservazione nasce dal fatto che è come se si rifiutassero di bloccare in modo “poco pulito” l’attacco dell’altro. Fateci caso, ci conoscono, ci studiano, si adattano ma, almeno in questo caso, non ci copiano. Vogliono essere più forti non più furbi, la loro strategia non è contro, ma verso l’altro. La maggior parte di loro cercano più il risultato che possono fare, più che cercare di contrastare gli attacchi dell’altro. Ora questo regolamento ci ha messo una zeppa, ma per anni il judo occidentale aveva, nei suoi aspetti deteriori, fior di professionisti nel perdere tempo, ritardare le prese se in vantaggio, smettere di attaccare e fare “catenaccio”. Non l’ho mai visto fare ad un giapponese, come se per loro fare un judo furbesco costituisse un disonore, là nella patria del judo alcuni valori vanno preservati. Oppure non è così e la faccenda è ancora più complessa.

Ci potrebbe essere un altro fattore, e cioè che l’ Occidente offre una dimensione legata alla realizzazione del “singolo” come individuo, l’Oriente va verso il collettivo. Il poeta massimo della lingua italiana è Dante Aligheri e non Alighieri Dante. Da noi le persone si chiamano prima con il nome e non con il cognome come in Giappone (ad esempio si dice formalmente Kano Jigoro e non il contrario). Ma non finisce qui, quando il Giappone, per necessità, celebra il singolo lo celebra non nella vittoria ma nella capacità di procurarsi la sconfitta. Faccio un esempio, il Giappone è universalmente conosciuto per la spada, l’uchigatana, e per la saga dei Samurai, guerrieri fortissimi che non avevano rivali. Ebbene il valore massimo del samurai non era dimostrato in battaglia, ma nel seppuku o suicidio rituale. Cioè la forza del samurai consisteva nel togliersi volontariamente la vita, se necessario, in aderenza al codice cavalleresco; togliere la vita è morire, da un punto di vista sportivo è la sconfitta. L’eroe giapponese è quindi un eroe romantico, un eroe che si procura una sconfitta, mentre l’eroe occidentale è un eroe vincente; Ulisse è il guerriero per antonomasia, astuto e determinato aggira i Troiani suggerendo lo stratagemma del cavallo e inganna Polifemo, il figlio di un dio, egli non ha rispetto per nessuno se non per la ricerca del risultato. L’Occidente celebra la vittoria come aspirazione del favore degli dei, addirittura l’America stampa sulla sua moneta “ Noi crediamo in Dio” producendo un intreccio, preoccupante, tra ricchezza e religiosità. Per l’Occidente il guerriero (lo sportivo) più amato è il più vincente, per l’Oriente il guerriero più celebrato è chi si suicida o chi, in alternativa si trasforma in teorico e filosofo come Miyamoto Musashi (anche qui prima il cognome). Per questi motivi amo vedere questa nazionale, i cui partecipanti si presentano calmi, completamente inespressivi, pronti a concentrare tutta la loro potenza in un attacco, non strappano continuamente le prese, ma cercano la presa adatta che spesso è quella fondamentale, hanno quasi tutti lo stesso hairi kata a terra che è semplicissimo ma molto efficace. Che vincano o perdano sono sempre molto dignitosi, quando vincono fanno gesti misurati se perdono lo fanno in silenzio senza disperarsi. Forse questa è la seconda cosa che ho imparato dai giapponesi.

Alessandro Giorgi

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