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Parole O_stili, un Manifesto per la scienza del dialogo

La presentazione in anteprima assoluta del Manifesto per la scienza, firmato da oltre cento luminari, e il messaggio di Liliana Segre. Sono stati questi alcuni dei momenti più significativi della terza edizione di Parole O_Stili. Il festival della comunicazione positiva si è concluso ieri sera, dopo una maratona di eventi e conferenze di alto livello che si è protratta per l’intera giornata negli spazi della Stazione marittima. Il Manifesto è la declinazione in chiave scientifica dei dieci principi della comunicazione non ostile stilati dall’associazione Parole_Ostili, nata a Trieste nel 2016. Prendiamo ad esempio «virtuale è reale», il primo principio, leit motiv di questa edizione. Per uno scienziato significa impegnarsi a motivare le proprie affermazioni in rete, così come farebbe dal vivo; diffondere solo risultati certi e verificati; rispettare il pubblico calibrando le spiegazioni in modo da farsi capire da tutti, evitando «sia la banalizzazione sia i tecnicismi inutili». Ma anche dire «sì all’argomentare autorevole, no a quello autoritatio o dogmatico», consci che «la scienza progredisce grazie al confronto rispettoso, aperto a critiche oneste, costruttivo».A presentare il documento è stata la sua autrice, la “signora della comunicazione” Annamaria Testa: «È stata una bella sfida scriverlo – ha detto -. Non l’ho inventato ma mi sono basata sui suggerimenti dei tantissimi divulgatori e scienziati che hanno risposto al nostro appello spiegando che cosa per loro è importante nella comunicazione scientifica. È la scienza che ci racconta l’universo, le sue leggi e il nostro pianeta, che forse oggi è a rischio. In Italia esiste un’ostilità verso chi ragiona in termini di scienza e cioè coltiva il dubbio, è aperto al dialogo, si basa solo su evidenze».Il Manifesto, che diverrà documento ufficiale di Esof 2020, è realizzato nell’ambito del progetto Sharper-Notte Europea dei ricercatori, coordinato dal master in comunicazione della scienza Franco Prattico di Sissa e Units. I firmatari sono già più di cento tra i quali l’astronauta Umberto Guidoni, il meteorologo Luca Mercalli, l’immunologo Roberto Burioni, lo scrittore e fisico Paolo Giordano, Mauro Giacca del King’s College di Londra.Come accennato, la senatrice a vita Liliana Segre, superstite della Shoah, ha inoltre fatto pervenire un messaggio. A leggerlo è stata la giornalista Anita Likmeta. «Con la rete dobbiamo fare i conti – sono le parole dedicate dalla senatrice a Parole O_Stili – perché i social hanno ristrutturato gli orizzonti dell’uomo. Dal reale al virtuale, la trasformazione del linguaggio è un fenomeno che attraversa tutta la comunicazione, compresa quella politica. I venti d’odio infuriano. Che oggi il genere umano sia un’unità digitale è un dato di fatto, cui non si può rimanere politicamente indifferenti». «Dalla vecchia Europa l’hate speech attraversa il pianeta e imbrigliare il fenomeno è dovere di tutti i Paesi democratici», le parole di Segre che ha annotato come «il mondo è destinato al futuro», ma «il linguaggio del futuro non dev’essere dettato dagli algoritmi bensì dalla lingua salvata. Se le parole sono pietre si deve scegliere tra il costruire muri o ponti. Le parole di pace sono compensazione e denuncia del limite della rete stessa».Nella giornata si sono tenuti 15 panel tematici, cui hanno partecipato centinaia di persone. Si è parlato di disinformazione, revenge porn, cyberbullismo, ma anche di come le aziende affrontano l’hate speech, di infanzia e di scuola: per ogni argomento si sono succeduti vari esperti. (Lilli Goriup – Il Piccolo di domenica, 2 giugno 2019)

Difendersi dal revenge porn, «Mai vergognarsi di parlare»
Il colloquio. Un giorno, dal nulla, inizi a ricevere decine e decine di messaggi su Facebook. Chiedono se ti è piaciuta una certa pratica sessuale, oppure ti insultano. Intuisci che è successo qualcosa ma non sai che cosa. Inizia così l’esperienza di ogni vittima di ciò che si definisce “revenge porn”, in attesa d’un termine più esaustivo. È la stessa esperienza che nel 2017 ha spinto Selvaggia Lucarelli – ieri a Parole O_stili per un panel sul tema – a intraprendere la sua inchiesta sui gruppi chiusi di Fb. «Dopo aver ricevuto tanti di quei messaggi – racconta la giornalista e scrittrice – ho capito che un personaggio molto noto si stava vantando attraverso il telefono di un presunto rapporto sessuale con me. Così ho scoperto l’esistenza di simili gruppi». Basta lanciare il “sasso”, pubblicare in un gruppo la foto di una donna – ovviamente senza consenso – non per forza pornografica. Si può ad esempio “rubare” l’immagine di un sedere in costume da bagno. La gogna mediatica farà il resto. «Studiando la comunicazione all’interno di simili luoghi – così Lucarelli – mi sono accorta che alcune forze politiche sui social agiscono in modo analogo. Si prende la foto dell’avversario e si chiede ai commentatori cosa ne pensino». Il bersaglio di turno, esposto al pubblico ludibrio, subisce l’odio di migliaia di commentatori. E intanto chi ha pubblicato il contenuto si deresponsabilizza: non è lui a insultare, ma gli altri. Anche perciò il termine “revenge porn” è considerato limitato da molti. «La diffusione di materiale intimo può avere mille motivazioni, ad esempio goliardiche o cameratesche, non solo di vendetta. Oggi però, diversamente da anni fa, tutti hanno gli strumenti per capire che stanno facendo del male a qualcuno». Come difendersi? «Non fidatevi, non condividete le vostre foto. Questo però non basta e soprattutto non deve diventare una forma di colpevolizzazione della vittima, tipo “te la sei cercata”. Bisogna rivolgersi alla polizia. E non vergognarsi di dire ciò che si subisce: il silenzio è il peggior nemico di se stessi». — Lilli Goriup

«Contro le fake news la paranoia è una virtù»
TRIESTE. Un debunker, termine che alla lettera in italiano si può tradurre con demistificatore, «per alcuni è un rompiscatole, per altri è un supereroe, di fatto è un’anomalia». Parola del debunker per eccellenza David Puente, da sempre impegnato nello smascheramento di notizie farlocche, e ora parte della redazione di Open. «Si tratta semplicemente del lavoro che dovrebbero fare tutti i giornalisti, e cioè la verifica dei fatti, o fact checking».Quelle che Puente smaschera, a rigore, non sono però fake news. «Quella parola ormai significa tutto e niente – spiega Puente -. Quando ci si ammala, per guarire, bisogna scoprire quale malattia si ha. Analogamente si deve imparare a distinguere tra bufale, disinformazione, misinformazione e satira: devo capire che un articolo di Lercio è pensato per far ridere. Individuato il problema, sono in grado di capire chi lo ha creato e perché: soldi, goliardia, pura cattiveria, tornaconto politico o commerciale».Come si riconosce un’informazione fasulla? «Armandosi di pazienza. Dobbiamo dedicare una parte del nostro tempo a combattere contro noi stessi, contro le nostre ideologie ed emozioni, perché sono le leve che usano bufalari e truffatori per fare breccia. Bisogna poi leggere, verificare, chiedere eventualmente a persone più competenti di noi». In questo senso «la paranoia è una virtù nel mondo della sicurezza informatica. Quando attraverso la strada guardo a sinistra a destra. Su internet le insidie sono tante, chi vuole fare del male arriva facilmente ovunque e a tutti». Per giostrarsi in questo mare magnum è fondamentale soprattutto avere «rispetto – conclude Puente -. Non bisogna né deridere né compatire chi abbocca alle bufale ma spiegare a quelle persone che hanno commesso un errore, senza offenderle. In caso contrario, dal momento che a nessuno piace essere attaccato, per autodifesa si rifugeranno da chi offre conforto facile, che spesso è il vero cattivo. Per capirsi a volte è utile uscire da internet e vedersi di persona». Lilli Goriup

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