Mamme «sportive» e nuovi traguardi

La maternità non è soltanto l’esperienza di vita più totalizzante di una persona e di una famiglia, ma anche un bene sociale, che va tutelato e protetto. Ogni tanto è bene ricordarlo. Il grado di progresso di un contesto sociale si può misurare dalla cura e dal sostegno alle giovani madri. Vale anche per lo sport, naturalmente. Per questo va valutato come un grande successo di tutto il movimento italiano la felice conclusione, con l’ultima firma del ministro Padoan, dell’iter di istituzione del fondo maternità delle atlete. Un percorso lungo, cui hanno partecipato molte donne e molti uomini negli ultimi anni. Fra questi certamente l’ex ministra Josefa Idem. Raffaella Masciadri, attiva presidente della Commissione Atleti del Coni, ha potuto esprimere un grande ringraziamento a chi ha reso possibile il varo dell’iniziativa. Questo fondo intende tutelare le atlete il cui contratto viene solitamente rescisso alla notizia della loro gravidanza. Non credo che avrà una grande applicazione, perché le donne solitamente pianificano il loro desiderio di diventare madri, ma egualmente ha una carica simbolica enorme, perché va nella direzione di riconoscere la specificità dell’atleta donna e di salvaguardarne l’attività. Giustamente non si fanno distinzioni (spesso inesistenti) fra «professioniste» e non, ma si bada al sodo e alla concretezza di un intervento automatico. Nessuna futura mamma verrà lasciata sola in un momento delicatissimo di vita.
Lo sport femminile è l’ultima frontiera del Coni e della nostra salute olimpica: i Giochi invernali coreani l’hanno confermato in modo eclatante. Senza l’oro sonante delle Goggia, delle Maioli, delle Fontana, che seguono la lunga teoria delle medaglie «estive», da Vezzali a Pellegrini, i bilanci italiani sarebbero molto deficitari. Può essere scontato per diversi Paesi che ci stanno davanti per risultati e tradizioni, ma è una cosa ancora fresca per l’Italia, dove il boom delle donne è degli ultimi 10-20 anni. Tutto rosa, dunque?
Purtroppo no, ed è il caso di prenderne realisticamente atto proprio mentre si fanno importanti passi avanti. La parità in campo sportivo è molto lontana dall’essere raggiunta nel nostro Paese: le donne tesserate non arrivano al 25% del totale. Cioè per ogni tre sportivi maschi c’è una sola donna, o anche meno. Un buco nero che non è soltanto quantitativo: la presenza delle donne nell’agonismo è fortemente addensata in alcune discipline che vengono falsamente ritenute più «femminili» e che rappresentano, al contrario, una gabbia sociale e un condizionamento indebito alla libera scelta delle bambine. Lo squilibrio enorme nel mondo del calcio rappresenta il fenomeno con una forza impressionante: oltre un milione e centomila maschi praticanti, a fronte di poco più di 22 mila donne. Mentre l’esplosione proprio del calcio femminile è un fenomeno su scala planetaria. A tutto ciò si aggiunge la modestissima presenza femminile negli apparati e nelle istituzioni, a partire dalle presidenze delle federazioni, fra le quali non esiste una sola donna. Ho la sensazione che le stesse atlete, specie le più giovani, siano scarsamente portate ad approfondire questi numeri e queste realtà, illudendosi di essere libere e liberate, almeno in campo sportivo. Purtroppo non è così e occorrerebbe una presa di coscienza forte, senza attendere balzi in avanti del costume. Questi ultimi sono certamente auspicabili, ma la marcia si compone anche di piccoli passi fatti nei rispettivi ambiti. Niente è troppo piccolo e insignificante quando si tratta di affermare istanze così ambiziose e soprattutto giuste. Anche la tutela della maternità delle atlete pareva un sogno irrealizzabile, mentre oggi è realtà. Goggia e compagne non possono essere un punto di arrivo: la strada è molto lunga ancora.
Franco Arturi

Venerdì 23 Marzo 2018, La Gazzetta dello Sport

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